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LA NUOVA DEL SUD ONLINE: Spettacoli: Pesce, Imposimato e quel lucano che spiava la prigione di Moro

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POTENZA - Lo spettacolo “moro” scritto dal giudice Ferdinando Imposimato e dall’attore Ulderico Pesce che ne è il protagonista, dopo il successo ottenuto al Teatro Lo Spazio di Roma dove ha fatto riscontrare il tutto esaurito per due settimane, sbarca al Teatro Stabile di Potenza questa sera alle 21.
Il lavoro mira a far luce su quello che accadde ad Aldo Moro e agli uomini della sua scorta nella primavera del 1978. Per l’occasione abbiamo rivolto alcune domande al giudice Ferdinando Imposimato e a Ulderico Pesce.
Dopo le scorie nucleari, l’inquinamento degli invasi e il caso Passannante, addirittura il “caso Moro”. Non è che si sa “montando” la testa?
“Se è riferito alla scelta di occuparsi di temi sociali, anche scottanti e dove ci si può scottare, confermo la sua impressione: mi sto montando la testa”.
Ovviamente, l’esperienza dell’anarchico salviano, dei 21 giorni della Fiat di Melfi, le scorie di Scanzano quanto sono state utili?
“Tantissimo. Del resto, sono andato avanti per tappe. Dall’inquinamento della Valle del Noce, nel mio territorio, al Metapontino, dal Melfese al Melandro. Inutili che le ricordi, però, che le precedenti esperienze sono state rappresentate in tutta Italia e anche nel mondo. Di questo me ne darà atto”.
Com’è stato lavorare con un giudice del calibro di Imposimato?
“Una grande esperienza. La storia di Aldo Moro è rimasta parte attiva della vita del giudice Imposimato. Non solo perché è stato il titolare dei primi tre processi sul caso Moro fino a quando, nel 1983, dopo l’assassinio di suo fratello Franco, ad opera della Banda della Magliana, gli fu tolto il processo e fu portato per motivi di sicurezza fuori dall’Italia con tutta la famiglia. Imposimato vive questa storia come parte attiva della sua vita visto che ancora oggi continua a indagare e a scrivere libri su questa storia”.
Quando è nata l’idea dello spettacolo e quali sono i cardini di questa storia?
“Chiamai il giudice Imposimato, il giudice Esposito (che ha recentemente condannato Berlusconi) e il Procuratore della Repubblica di Lagonegro Russo, prima a Rivello e poi al Centro Banxhurna di San Paolo Albanese dove si parlò lungamente delle scoperte di Imposimato. In quelle occasioni pensammo di scrivere un’opera di teatro. Lo spettacolo è nato in Basilicata. I cardini della storia sono le indagini del giudice e la vita di due membri della scorta: Raffaele Iozzino di Casola di Napoli e Francesco Zizzi di Fasano, in Puglia, entrambi uccisi quella mattina di marzo del 1978. Le frasi che Imposimato scrive e che io recito dicono a chiare lettere che ad uccidere Moro e i membri della scorta non furono solo le Brigate Rosse ma pezzi importanti dello Stato Italiano”.
Su quali basi dice questo?
“Mentre i terroristi sparavano a pochi metri di distanza c’era Camillo Guglielmi, un colonnello dei Servizi Segreti italiani iscritto alla P2. Cosa ci faceva? Nell’interrogatorio dice che andava a pranzo dal colonnello D’Ambrosio. Ma interrogato quest’ultimo nega. E poi non si va a pranzo alle 9 del mattino. Questo colonnello era iscritto alla P2 e si trova sul luogo della strage. Non può essere un caso”.
Quelle di Imposimato sono indagini di qualche anno fa ma, di recente, abbiamo saputo di importanti rivelazioni fatte dal brigadiere della Guardia di Finanza Giovanni Ladu che riguardano anche la nostra terra. Cosa ci dici?
“Ladu una mattina si è presentato da Imposimato e gli ha rivelato che lui e altri 30 militari, dal 24 aprile e fino al 7 maggio 1978, hanno spiato per conto dello Stato italiano la prigione dove era prigioniero Aldo Moro in via Montalcini 8 a Roma. Tra i militari Ladu dice che c’era anche un lucano, ricorda il suo nome in codice “Archimede”. Significa che lo Stato sapeva dove fosse Aldo Moro e bastava sfondare una porta per liberarlo. Tanto che Ladu rivela che era prevista l’irruzione la mattina del 7 maggio ma che arrivarono ordini dal ministero degli Interni per scioglere le fila e non fare nulla. Nella parte finale dello spettacolo dico tutte le rivelazioni di Ladu. Sono terribili ma non mi fate anticipare nulla”.
(Le interviste integrali sull’edizione cartacea de “La Nuova del Sud”)

DUE RIGHE.COM: Il caso Moro rivive sul palco del Teatro Lo Spazoio

DUE RIGHE.COM di Anna Dotti

Sulle note di Modugno, attraverso lo schermo di un vecchio televisore Mivar, la storia di un ragazzo del Sud che non aveva mia visto Roma, e le indagini di un giudice che provava a fare il suo lavoro, Ulderico Pesce ci trasporta magistralmente alla fine degli anni ’70. Se la cornice è nostalgica, fuori moda, e potrebbe strapparci un sorriso, quello che si anima al suo interno è però drammaticamente attuale: gli interrogativi ancora aperti sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e della sua scorta. “Non l’hanno ucciso le Brigate Rosse, Moro e i ragazzi della scorta furono uccisi dallo Stato” è questa l’affermazione attorno a cui ruota l’intero pezzo teatrale, di cui Ulderico Pesce ci mostra l’attendibilità basandosi sul lavoro svolto dal giudice Ferdinando Imposimato e il racconto di Ciccio Iozzino, il fratello minore di Raffaele. Raffaele Iozzino era uno dei membri della scorta di Aldo Moro, l’unico che durante il rapimento, la mattina del 16 marzo del ’78, riuscì a sparare due colpi di pistola contro i rapitori, prima di essere freddato insieme ai suoi colleghi: Francesco Zizzi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Oreste Leonardi. Pesce interpreta Ciccio e dà un resoconto dei fatti dal suo punto di vista, interagendo brevemente con il video delle dichiarazioni del giudice Imposimato. In questo modo emergono le caratteristiche sui generis del caso Moro, gli elementi poco chiari sono molti, a partire da come veniva tutelata la sicurezza del Presidente prima del rapimento, alla modalità con cui si svolse il rapimento stesso, e alla successiva gestione delle indagini e delle trattative con le BR; così come non sono da sottovalutare le conseguenze del drammatico evento, che ebbe i suoi risvolti positivi per personaggi come Andreotti e Cossiga, e allo stesso tempo per la salvaguardia degli interessi americani, politici ed economici. La pièce prende il nome appositamente di “moro, la strage di Via Fani”, quella “m” minuscola sta a mostrare come la morte del Presidente fosse segnata, come impressa nel suo stesso nome: moro, radice del verbo morire. Del resto non si può imputare a Pesce o a Imposimato alcun volo pindarico, con abilità retorica e amore per la verità hanno delineato i contorni di una verità che ci consegnava lo stesso Moro, quando in una delle ultime lettere dalla prigionia scriveva “Il mio sangue ricadrà su di voi, sul partito, sul Paese”. Non stupisce che lo spettacolo trovi difficilmente un palcoscenico che lo ospiti, a maggior ragione questo è senz’altro uno spettacolo da vedere, per non dimenticare, per comprendere criticamente la realtà e la storia su cui si fonda l’attualità del nostro Paese. La rappresentazione ci investe della consapevolezza che, fin quando non si farà luce, veramente, su questo caso come su tutte le altre “stragi di Stato”, quelle macchie di sangue ci resteranno addosso.
Anna Dotti14 dicembre 2013

EUROPA: CASO MORO TRENTACINQUE ANNI DOPO GLI INTERROGATIVI RESTANO

EUROPA: di Alessandra Bernocco

 

Caso Moro, trentacinque anni dopo gli interrogativi restano

Ha debuttato in prima nazionale il monologo di Ulderico Pesce scritto a partire dal libro di Ferdinando Imposimato. In scena al Teatro Lo Spazio di Roma fino a domenica

Viene una grande rabbia a sentire Ulderico Pesce snocciolare una a una, in un monologo di non più di un’ora, tutte le incongruenze che ancora si annidano intorno al sequestro e all’assassinio di Aldo Moro. «Quante stranezze in questa storia, quante bugie costruite ad arte», dice l’attore e autore votato da tempo a quel genere di teatro cosiddetto civile e quindi incazzato, polemico, ma documentato e onesto.In questo caso il riferimento è il giudice Ferdinando Imposimato che compare addirittura come coautore. Moro, la strage di via Fani infatti è un ininterrotto atto d’accusa delle istituzioni, dell’assenza di stato, del silenzio e della manipolazione dei fatti soprattutto da parte dell’allora ministero e ministro dell’Interno Francesco Cossiga, così come emerge dagli ultimi due saggi di Imposimato, Doveva morire, del 2011 (Chiarelettere editore), e il recente I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia, uscito lo scorso ottobre per Newton Compton.La ricostruzione senza remore di fatti e testimonianze, lo smascheramento di reticenze e presunte menzogne, fornita dal giudice istruttore delle indagini, a distanza di trentacinque anni fa accaponare la pelle. Possibile che si parli così poco dei libri di Imposimato e che l’opinione pubblica sia paga di avere archiviato un capitolo così devastante di storia italiana?È certo che quando ci viene scaraventato nuovamente addosso, concentrato in un’ora di furibonde rivelazioni, fa davvero impressione. E non si può fare finta di niente, come se tutto potesse essere definitivamente sepolto da più urgenti questioni.Ancor più perché Pesce si cala nei panni del fratello quindicenne di un membro della scorta – non un’invenzione drammaturgica ma una narrazione basata su interviste realmente avvenute – e riferisce e racconta a partire dal suo punto di vista, intrecciando momenti di intimità e sofferenza squisitamente privati ai punti cardine della denuncia, mediati dalle dichiarazioni del giudice.Eccoli: 1) nella zona di via Fani, subito dopo il rapimento, un black out improvviso delle linee telefoniche rese impossibile ogni comunicazione; 2) Radio Città Futura e in particolare Renzo Rossellini annunciò di un imminente attentato a Moro mezz’ora prima del sequestro, cioè alle 8,30 del 16 marzo. Però l’Ucigos (Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali), che all’epoca registrava tutte le trasmissioni radiofoniche, interruppe la registrazione dalle 8,20 alle 9,33; 3) la dichiarazione di un testimone (Alessandro Marini), indica che a sparare in via Fani non furono solo i terroristi ma anche due motociclisti che avrebbero sparato da una moto honda blu di grossa cilindrata. 4) i bossoli di proiettile ritrovati sul luogo della strage e le dichiarazioni incrociate dei terroristi lasciano ipottizzare un residuo di quarantanove colpi di altra provenienza; 5) all’ora del sequestro in via Fani c’era il colonnello Camillo Guglielmi dei servizi segreti, come egli stesso ammise nell’interrogatorio. Erano le 9 di mattina e il colonnello iscritto a Gladio disse che stava andando a pranzo dal colonnello D’Ambrosio il quale, da parte sua, negò l’appuntamento; 6) il pubblico ministero Infèlisi il 24 aprile, quando Moro era ancora vivo, aveva emesso ordini di cattura nei confronti dei terroristi Gallinari, Morucci e Faranda che avevano sparato in via Fani e che in quel momento erano i carcerieri di Moro, ma quell’ordine di cattura venne bloccato dall’Ucigos; 7) Franco Ferracuti, criminologo dell’università di Roma e medico personale di Cossiga, fa firmare un appello a settantacinque intellettuali italiani che dichiarano che Moro, in base alle lettere che scriveva dalla prigionia, era pazzo.Questo, senza considerare la recentissima dichiarazione di Giovanni Ladu, ex sottufficiale della Guardia di finanza ora indagato per calunnia, per avere denunciato che la prigione del presidente Moro, in via Montalcini, era ben nota ai vertici della Dc, dei servizi segreti e delle forze dell’ordine.

IL GRIDO. ORG : MORO: LA STRAGE DI VIA FANI

il grido .org di Giovanna gentile

“moro: la strage di via Fani”. Con la lettera minuscola, perché è anche un verbo. Destinato a morire, quindi. Questo è ciò che Steve Pieczenik, consulente del Dipartimento di Stato USA nel 1978, scrive nel suo libro e riafferma in un'intervista rilasciata a Giovanni Minoli su Radio24 lo scorso settembre. Pieczenik dichiara di essere stato mandato in Italia, per allontanare definitivamente l'ipotesi di un Governo che includesse anche la sinistra, sacrificando proprio il politico democristiano.A 35 anni dalla morte di Aldo Moro ancora tanti interrogativi rimangono sospesi, al pari dei fatti che hanno scandito i periodi storici più neri della storia italiana. Ulderico Pesce compie una ricerca documentale collaborando, per la messa in scena di “moro: la strage di via Fani”, con Ferdinando Imposimato, giudice istruttore a Roma che nel 1983 aveva depositato la prima e la seconda sentenza del processo sull'omicidio dello statista. Il regista e interprete, ripercorre la storia dal punto di vista di Ciro, il fratello minore di Raffaele Iozzino, agente della scorta di Moro, ucciso nella strage di via Fani il 16 marzo del '78, insieme agli altri agenti. Un punto di vista che avvicina umanamente, alle famiglie delle persone coinvolte. Il racconto prende forma quando Ulderico, nel ricomporre il puzzle, mette insieme tasselli che l’opinione pubblica ha conosciuto poco alla volta, informazioni spietatamente ostacolate e per le quali hanno sacrificato la loro vita altre persone, come il fratello dello stesso giudice Imposimato. Nel ricomporre il puzzle le responsabilità sembrano più definite: dalle auto blu della scorta non blindate, alle armi che dovevano essere necessariamente lasciate nel portabagagli, passando per i mancati soccorsi quando invece si conosceva perfettamente il luogo del sequestro. E proprio su quest'ultimo fatto lo scorso febbraio Giovanni Ladu, sottufficiale della Guardia di Finanza, che ai tempi aveva preso parte all'operazione di monitoraggio dell'appartamento di via Montalcini da parte dei servizi segreti, ha dichiarato: «Tutti sapevano ma nessuno ha fatto niente per liberarlo».

Risuonano in testa le ultime parole di Ulderico-Ciro che, uscendo di scena urlando, si scaglia contro gli italiani «incapaci allora, come oggi, di reagire»… A fine spettacolo si accendono le luci in sala e Pesce rimane a discutere con gli spettatori. L'impegno civile del suo teatro va oltre il palcoscenico; lo testimoniano le petizioni che accompagnano i suoi spettacoli (per esempio “Asso di monnezza” e “A come amianto”).
Urla questo teatro e pone lo spettatore di fronte a delle responsabilità civili.


giovanna gentile

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