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Ulderico Pesce

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Chi mi conosce mi chiama Ulderico ma il mio nome vero è Ulderico Biagio Franco Pesce.
Mio padre e mia madre mi chiamarono così per accontentare mio nonno, uno zio morto a vent’anni sotto il camion guidato dal suo padrone e un bisnonno che mise incinta la mia bisnonna e se ne andò in America da dove non tornò mai più.
Sono nato nella regione che si può chiamare in due modi: Basilicata o Lucania ma che pochi chiamano perché pochi conoscono.
Mio nonno, come suo padre, ha fatto l’arrotino, girava per i paesi della Basilicata, della Calabria, della Puglia e di parte della Campania e “ammolava” coltelli raccontando storie di anarchici, antifascisti, operai, braccianti e altro. Io ho seguito mio nonno nell’infanzia e mi ricordo che si piazzava davanti alle macellerie e parlava forte che lo sentivano tutti e raccontava le cose che vedeva o quelle che suo padre gli aveva raccontato. Era buono, onesto, simpatico ed era socialista.

Mia mamma, sua figlia, si chiama Caterina, racconta le cose come mio nonno che è uno spasso. Mio padre Giovanni ha fatto il sindacalista della CGIL, assisteva i braccianti agricoli, tanto che a casa nostra la mattina ci svegliavano loro. Era bello. Spesso ci portavano il latte fresco di mucca che mia mamma bolliva sul gas. Io volevo essere come mio nonno, e come il mio bisnonno ma anche come mio padre, mi colpivano i problemi e le vite dei braccianti

Però quando crescevo negli anni ’70 e ’80 era difficile diventare “arrotino-narratore” perché in Italia il mestiere di arrotino stava scomparendo ed era anche difficile occuparsi di braccianti visto che le terre erano in abbandono e l’agricoltura affidata a grandi imprese. E allora non mi rimaneva che fare l’attore-narratore. Cominciai a studiare per diventarlo ma senza perdere di vista mio nonno. Mi trasferii a Roma, a San Lorenzo, dove appesi al muro, vicino alla finestra che dava sulla tangenziale est, la foto di mio nonno arrotino e mi trovai a frequentare un corso di recitazione dell’Istituto del Dramma Antico. Quì conobbi Giorgio Albertazzi, che mi portò con lui per due anni tanto che non arrivai neppure a prendere il diploma. Poi conobbi Carmelo Bene e lavorai con lui e poi ancora la poetessa Amelia Rosselli, (figlia di Carlo Rosselli ucciso con il fratello Nello nel 1937 dalle truppe di Mussolini), lei mi portava in giro per festivals e università a leggere le sue poesie. Poi conobbi Luca Ronconi, Gabriele Lavia e tanti altri con cui ho lavorato senza mai dimenticare mio nonno. Poi una mattina al Teatro Ateneo di Roma conobbi Anatoli Vassilev che mi portò a Mosca dove ho lavorato al suo fianco per circa tre anni. Vassilev amava un teatro semplice, povero, strutturato sulla verità e sulla necessità delle emozioni, a lui piaceva qualcosa che mi ricordava il sistema di mio nonno tanto che una sera, dopo una mia improvvisazione sul mio “progenitore famoso” nel Teatro Uran di Mosca, Vassiliev mi disse: “Io sono tuo nonno.”

Quella frase mi fece capire la strada che dovevo fare. Tornai in Italia e cominciai a raccogliere testimonianze di cose vere, cominciai a scrivere e raccontare storie come faceva mio nonno, anche storie che infastidiscono i poteri forti, le “caste”, i malavitosi, tanto che sul groppone non ho più la pescante mola di mio nonno ma qualche denuncia.
La cosa importante è che queste storie cominciano ad interessare tanta gente che mi viene a vedere senza portare coltelli e forbici da “ammolare”.

Ulderico Pesce

 

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